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al testo di Pietro Menditto
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Quando l'officiante avrà estratto di prestigio dal cilindro la ricompensa finale che ti aspetta per averti assimilato alla carcassa del nero morto di mosche e di fame, a ogni anima che pia inghiotte e accetta; quando la frusta teodicea avrà saturato il tempio e di te sarà lo scempio ultimato, io ti dimenticherò, come non ti ho mai dimenticato. Solo percorrerò l'ultima volta le strade che assottigliavano la tua suola: quelle che da via Battistessa portavano alla scuola, via Tanucci, corso Giannone o, se erano belli i tempi, via Turati, via Alois, piazza Vanvitelli… C'era un filo troppo corto, un nulla, che non andava buttato, incomprensibile e fu utilizzato, per te. Scese sul tuo giaciglio come in altre case entra un raggio sensibile di sole e posa sul viso confidente del figlio illuminandone il sorriso. In te si insinuò il nylon celestiale e il tuo passo, ogni tuo passo, fu per noi lo scandalo, il rebus del presentito assurdo oblio qui est in coelis, che disegnò il taglio lupesco dei tuoi occhi, forgiò la chiave che condannò alle pene dell'inedia la tua fame del cosiddetto Bene. Per questo io ti dimenticherò, come ha fatto Dio: non cresce salvezza memoria che non possa dannare oblio. Il filo per troppo tempo teso, logorato si è diviso. Nulla della tua vicenda d'ora potrà dirci che l'arbitro fischia ancora rigori che non esistono o punizioni per svergognarlo alla moviola. Angelo compagno di banco, di un banco andato al macero con tutti noi, Angelo perduto, giocasti bene, ma l'arbitro era venduto. |
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